Un’ora lunga trent’anni

La storia di una donna che non vuole più tacere.
Segreti che chiedono di essere svelati.
Un viaggio nel profondo dell’anima.

Ispirato a una storia vera.


 

49 di 150 copie
Prezzo: 14,00 (Iva Inclusa)

Disponibile

Dettaglio

Obiettivo Campagna

50 Copie

Termine Campagna

1 Novembre 2024

Consegna Prevista

Novembre 2024

Info Autore

Veronica Delcarro

Veronica Delcarro

Veronica Delcarro nasce a Treviglio nel 1976. Ama ascoltare le storie delle persone che entrano nella sua vita e decidono di svelarsi raccontando ricordi, emozioni, fragilità e chiedono di trasformare il loro vissuto in un’esperienza letteraria che possa essere coinvolgente e di supporto ad altre persone.

Sinossi

C’è un punto nella vita in cui ognuno di noi si pone delle domande esistenziali.
Sveva è una di queste persone: è una donna che sente la necessità di scavare nel passato per trovare le risposte che le consentiranno di vivere in pace con se stessa.
Dopo un periodo di difficoltà con il marito, Sveva decide di intraprendere un percorso di terapia di coppia, durante il quale riemerge il doloroso ricordo dello stupro subito trent’anni prima.
Grazie al sostegno della psicoterapia, alla vicinanza amorevole del compagno e di una cara amica, Sveva riesce lentamente ad affrontare le sue paure e la sua rabbia.
Un romanzo che vuole infondere coraggio al lettore, e soprattutto alla lettrice, invitando a non perdere mai le speranze, nemmeno quando il buio interiore sembra avvolgere tutta l’esistenza.
Romanzo ispirato a una storia vera.

Anteprima

1- IO E MARCO 

Io e Marco ci eravamo svegliati all’alba ma avevamo indugiato ad alzarci dal letto: potevamo fare con calma perché eravamo straordinariamente soli in casa. La sera prima avevamo lasciato le bambine a dormire dai nonni; saremmo andati a riprenderle dopo la giornata di lavoro che ci attendeva nella baita in montagna che avremmo raggiunto di lì a poco. Marco si alzò per primo, richiamato dal guaito del cane e dal bisogno impellente di fare pipì. Io rimasi a letto qualche minuto in più, fissando il soffitto mentre l’elenco delle incombenze da svolgere in giornata mi davano il buongiorno. Ancora insonnolita, andai in cucina per bere il caffè d’orzo che naturalmente non mi svegliò affatto, ma era di conforto da quando avevo smesso di bere caffè espresso, sconsigliato per la sovreccitazione dovuta alla caffeina. Per me non era proprio il caso. Indossai dei vestiti pratici, considerato che sarei tornata piena di ragnatele e polvere. Dei leggings, una maglietta morbida e leggera, ai piedi delle scarpe sportive. Mi guardai allo specchio per darmi una pettinata. Un tempo i miei capelli color biondo cenere erano lunghi e sempre scompigliati, ora per senso pratico li avevo tagliati corti e mi donavano un’aria più sbarazzina, i verdi occhi erano sempre stati penetranti e la corporatura magra e nervosa si adattava perfettamente al mio temperamento. Vivevamo in una piccola cascina in campagna e a partire dalla primavera ogni fine settimana e d’estate per interi mesi emigravamo verso la baita in montagna, acquistata tredici anni prima. Era il nostro rifugio, la nostra pace, la nostra libertà, dove un giorno di permanenza equivaleva a una settimana di ferie, giacché la natura che la circondava emanava pace e riposo. La chiamammo Arcadia perché nella letteratura greca l’omonima regione storica ha sempre rappresentato il luogo in cui uomini e natura vivono in perfetta armonia. Dovevamo effettuare le incombenze necessarie per l’apertura della stagione primaverile. La baita era stata chiusa tutto l’inverno e necessitava di pulizie approfondite perché potessimo iniziare a trascorrerci i fine settimana, fino a quando il freddo non avesse cominciato a imbiancare di nuovo il bosco. Bisognava togliere tutte le ragnatele che indisturbate erano state tessute in ogni angolo della baita, interamente costruita in pietra e legno, poi pulire finestre, porte, mobili, cambiare la biancheria, spazzare e lavare i pavimenti, fino alla preparazione dei letti, per essere pronti al primo arrivo della famiglia. Volevamo arrivare di buonora, consapevoli del duro lavoro che ci aspettava ma entusiasti di passare qualche ora da soli, senza nessuna interruzione dovuta alle inevitabili mille richieste di attenzione giornaliere delle nostre figlie. Avevo già organizzato l’occorrente per il viaggio e il lavoro, tutto era sommariamente sotto controllo: persino l’ansia si era presentata puntuale, provocandomi una sensazione fastidiosa, come una zanzara che ti ronza a intermittenza nella cavità dell’orecchio. Andai in lavanderia per vedere se avevo staccato la lavatrice, salii all’ultimo piano della casa e ridiscesi controllando che tutte le luci fossero spente, arrivata in cucina diedi un’occhiata ai fornelli per assicurarmi che il gas fosse chiuso dopo aver fatto il caffè, prima di uscire diedi un ultimo sguardo alla casa come se stessi partendo per un viaggio senza ritorno. Forse avrei dovuto prevedere una giacca di scorta perché in montagna avrebbe fatto più fresco ma ormai avevo già chiuso la porta. Esitai un momento e poi decisi di entrare di nuovo in casa: ritornai sui miei passi senza accendere la luce che magari avrei dimenticato di spegnere, brancolando nel buio mi diressi all’appendiabiti e, tastando la parete, trovai il giubbetto di flanella. Dovevo darmi una mossa. Dove erano le chiavi di casa? Controllai nella borsa in cui le avevo riposte e chiusi l’uscio con due mandate. Rimisi a posto le chiavi, anche se forse avrei dovuto lasciarle nel nascondiglio dentro il vaso di terracotta; nel caso in cui fosse successo qualcosa, i vicini avrebbero avuto accesso alla casa. Marco suonò il clacson, chiaro segnale che era pronto per partire, ma prima di incamminarmi, mi soffermai ancora sulla porta e istintivamente raddrizzai lo zerbino con il piede, allineandolo con la soglia dell’ingresso. Raggiunsi il furgone dove Marco mi stava aspettando con il motore acceso. Era un autocarro che avevamo comprato di seconda mano, un ottimo affare che mi aveva richiesto almeno sei mesi di ricerche in internet per trovare il rapporto qualità-prezzo perfetto. Dopo quattro anni di utilizzo, il possente pick-up nero brillante era diventato un mezzo da lavoro sempre infangato a causa della percorrenza sulle strade accidentate di montagna. Sull’abitacolo c’era di tutto: motoseghe, borse da lavoro, bottiglie d’acqua inutilizzate da mesi, corde elastiche, cambio abiti da lavoro, scarponi da montagna e, complici i finestrini che non erano più adeguatamente ermetici, quando pioveva l’acqua filtrava all’interno della cabina e provocava un puzzo di cane bagnato. Mi accomodai nella postazione del passeggero e abbassai una decina di centimetri il finestrino per rendere l’odore dell’aria accettabile, guardai intorno cercando di sorvolare su quel luogo caotico in cui avrei dovuto rimanere per almeno due ore in favore di un clima disteso e senza polemiche. Marco sembrava totalmente ignaro della mia insofferenza. «Partiamo e speriamo di non trovare troppo traffico.» A lui il disordine non dava fastidio o per lo meno apparteneva alla categoria di persone che sostengono che nel proprio disordine trovano tutto. Durante il tragitto cercai un diversivo. «Ora che ho tempo, dovrei recuperare delle foto della famiglia al completo perché servono per un compito scolastico delle ragazze. Dovrei averne alcune sul telefono» dissi distogliendo lo sguardo da un paio di calzini che sbucavano sotto il sedile. «Se non ricordo male, avevamo fatto un autoscatto in Liguria, quando siamo andati per capodanno a Triora, ricordi Sveva?» 

«È vero! E chi se lo scorda, abbiamo fatto almeno dieci tentativi perché le ragazze non stavano ferme. Non ne potevo più.» dissi scorrendo l’indice nella galleria del cellulare. «Trovata! Anzi, trovate» esclamai osservando i molteplici scatti. «Anche se non mi sembrano adatte per il compito da svolgere.» 

«Perché? Non serviva che fossimo tutti insieme?» 

«Sì, ma la traccia del compito è “la famiglia felice” e qui le ragazze hanno dei musi così lunghi che sembra scattata ad Halloween. La piccola sembra Mercoledì Addams tanto è imbronciata.» 

Ricordai il tempo trascorso in ognuna di quelle fotografie: ogni sgridata, ogni lamentela, ogni esasperazione. Perché non sono capace a lasciar correre? Perché deve essere sempre tutto perfetto? Scorsi gli scatti degli ultimi anni: gita al luna park, picnic nel bosco, pesca sul lago di Caldonazzo, duomo di Milano, feste di compleanno, visite al Museo della scienza, parco archeologico, giardini botanici. In quasi tutte le immagini la fotografa non compariva, solo qualche autoscatto che programmavo per testimoniare che c’ero anche io: alcune volte avevo l’impressione che avere dei ricordi da conservare nel tempo fosse più un dovere che un passatempo ludico. Mi guardai nello specchietto retrovisore e osservai tutte le nuove rughe che erano spuntate in modo silenzioso sulla fronte, in particolare mi soffermai sull’ultima arrivata, quella orizzontale tra il naso e la fronte. Scrutando le mie imperfezioni, notai il bagagliaio del furgone, dove c’era il necessario per le pulizie in montagna. Feci ancora una sommaria rendicontazione visiva di tutte le scatole che avevamo caricato: detersivi, stracci, aspirapolvere, biancheria pulita, pranzo al sacco, cibo per il cane, scope, spazzoloni e… non riuscivo a vedere l’attrezzo per togliere le ragnatele. 

«Marco, perché dietro c’è lo spazzolone rosso e non vedo invece il bastone per le ragnatele? Non dirmi che hai sbagliato.» 

«Sveva, mi hai detto tu di prendere lo spazzolone nel ripostiglio.» 

«Ti ho detto di prendere lo spazzolone delle ragnatele e non è quello che hai preso.» 

«Ma che cosa ne so io, pensavo che ti servisse lo spazzolone normale, quello rosso.» 

«Vedi, facevo meglio a prenderlo io. Però avresti potuto capire anche tu quale era quello giusto. Ho detto ragnatele. L’hai sentita la parola? Te la ricordi?» 

Il sole si nascose dietro a una nuvola e per un momento il cielo divenne opaco, sulla strada il traffico si fece più intenso e un automobilista suonò a un altro conducente che aveva fatto un sorpasso azzardato. 

«Sveva, non incominciare a rompere. Tu non sbagli mai?» 

«Sì, ma innanzitutto dichiaro di aver sbagliato e poi non mi capita così spesso.» 

«Certo, tu sei perfetta e tutti gli altri sono deficienti.» 

«Non ho detto questo, ma è vero che non posso mai contare su nessuno, nemmeno per una cretinata come lo spazzolone, devo sempre pensare a tutto io!» 

Il sangue iniziò a scorrere più veloce nelle vene, il cuore a battere più forte, respiravo affannosamente e le energie evaporavano dal mio corpo come la foschia che si solleva dai terreni di campagna nelle fredde mattine d’autunno. 

«Sì certo, fai tutto tu e se non ci fossi la nostra famiglia tracollerebbe» mi rispose stringendo con le mani il volante e accelerando la velocità. 

«Puoi giurarci! Sai che devo tenere un’agenda per ricordarmi tutte le cose che dobbiamo fare? Le scadenze, i pagamenti, le visite, le riunioni a scuola e in più mi devo ricordare di controllare quello che ti chiedo di fare!» 

Marco guidava con fare scattante, facendo sorpassi e manovre rischiose ci mancò poco che tamponasse un signore anziano che guidava troppo lentamente. Teneva gli occhi sbarrati e nelle pupille aveva un luccichio senza amore. Il viso era livido, contratto da una smorfia di rancore e provavo la terribile sensazione che avremmo potuto farci del male nella detonazione. 

«Sei proprio un’arrogante. Io mi occupo di tantissime altre cose che tu non fai, non ci sei solo tu a tirare avanti la baracca e stai facendo una tragedia per uno spazzolone!»

«Non hai capito niente. Pensi sempre a giustificare le tue continue dimenticanze senza pensare al fatto che quello che non fai tu, lo devo fare io!». La giugulare sul collo era sempre più gonfia e il colorito della mia pelle mutò le sue tonalità, diventando grigio cadavere, a eccezione delle occhiaie che erano sempre più incavate e bluastre. «Adesso ti fermi e mi fai scendere, subito!» esclamai mentre un’immensa voglia di urlare si impadroniva di me. 

«Ma dove diavolo vuoi andare? Non c’è posto per fermarsi.» 

«Se non ti fermi subito, giuro che scendo lo stesso» dissi sganciando la cintura di sicurezza e cercando la maniglia per aprire la portiera. 

«Sveva, adesso mi fermo, scendiamo, fumiamo una sigaretta, ci calmiamo e parliamo.» Mi guardò per alcuni silenziosi secondi, chiedendosi se fossi rientrata in me. 

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