Sinossi
Racconti di un istante unico è un viaggio nella vita di tutti i giorni attraverso l’immaginario che può scaturire da una fotografia: un istante rubato alla realtà e fissato per sempre, intorno al quale si è costruita una nuova realtà, immaginata, descritta, rivista con nuovi occhi.
Racconti lunghi quanto un istante, appunto, o giusto il tempo per raccontare il prima ed il dopo di quel preciso momento, da leggersi con lo spirito di chi vuole lasciarsi trascinare in un immaginario con leggerezza e desiderio di rivedere le situazioni in una chiave nuova.
Piccoli spaccati di vita che ci presentano personaggi comuni che nello scorrere naturale del quotidiano potrebbero sfuggire all’attenzione, ma che possono nascondere storie degne di essere raccontate e immaginate.
Anteprima
Ci sono luoghi che attraggono, altri che segnano, altri ancora che ci accompagnano per tutta la vita. Il piccolo pontile di legno si affacciava sul lago e suo padre l’aveva sistemato quando decise di fare la “pazzia”, come sosteneva sua madre, di acquistare quel vecchio rudere abbandonato dai pescatori, simile ad un vecchio abito sgualcito gettato in un fossato lungo una strada, era uno di quei luoghi. Era un affare, diceva suo padre, sarebbe stato il loro posto segreto, il loro angolo nascosto nel mondo, così lo chiamava. Sua madre non aveva mai amato quel luogo: “troppo triste e umido, troppo silenzio tutto intorno, abbandonato dall’uomo e da Dio”, diceva; invece, Ilaria pensava che quello fosse il posto dove Dio si sarebbe potuto nascondere nei momenti in cui non ne poteva più degli uomini.
Dopo anni di lavoro, la “casetta” come lei la chiamava, tornò ad avere un aspetto decente; non era una reggia, ma era pulita, intima, essenziale; andava bene per suo padre, male per sua madre, forse per questo ci andavano solo lei e il papà, nei weekend di sole, mentre la mamma restava a casa, in città. Il lago, o quel che ne restava poiché nel corso degli anni si era ristretto molto ed anche per questo di pescatori non se ne vedevano più, trasmetteva sensazioni diverse, dalla quiete alla malinconia, dalla pace alla solitudine, ma a lei piaceva proprio per questo.
Quando era piccola, si addormentava spesso sotto la veranda della casetta in braccio a suo padre, protetti dall’umidità notturna dalla vecchia coperta a scacchi che li aspettava sempre poggiata sul dondolo, ogni volta che dalla città fuggivano per un paio di giorni, per andare a lanciare i sassi nel laghetto e vedere chi riusciva a far fare più rimbalzi, oppure a fare un giro sulla barchetta recuperata lungo la riva, che un amico di papà aveva risistemato, o ancora a passeggiare nel boschetto che costeggiava il lago per spiare le lepri e gli scoiattoli rossi sui rami degli alberi; ma anche per fare un falò ed abbrustolire spiedini di marshmallow. In quegli anni il papà le aveva trasmesso la passione per la fotografia e quando aveva 13 anni le aveva regalato una macchinetta fotografica non troppo impegnativa; “per fare pratica” le disse, mentre lei scartava il pacco rosso nascosto sotto l’albero di Natale, meravigliosamente addobbato da sua madre. Da allora non smise mai di immortalare con la sua Nikon tutto ciò che la incuriosiva ed in pochi anni aveva collezionato dieci album di fotografie.
Crescendo la casetta cominciò ad andarle stretta; la città offriva più stimoli, e soprattutto ragazzi da baciare e amiche con le quali divertirsi; le capitò un paio di volte di ritornare sul lago per una festa con gli amici, ma successe che alcuni di loro alzarono un po’ troppo il gomito e la festa finì con una baraonda, la barchetta slegata dal porticciolo finì in mezzo al lago, il dondolo del portico distrutto e un caos dentro casa da non poter descrivere. Si vergognò fino al punto da allontanarla per sempre dalla casetta. Suo padre non le disse nulla ma lei capì di averlo deluso; era come se avesse violato il loro piccolo mondo intimo e segreto, andandoci di nascosto con gli amici un weekend in cui sapeva che il papà non ci sarebbe andato; ma sono cose che capitano a diciotto anni, capitano e cambiano le carte in tavola, le regole del gioco.
Anche la piccola macchina fotografica le andava ormai stretta, voleva panorami più ampi da poter visitare e fissare nella memoria. Arrivò l’università, poi il lavoro, e la carriera; due anni in Germania a lavorare per un colosso dell’informatica, e poi gli Stati Uniti, San Francisco. Il ruolo da Dirigente, un figlio prima non cercato perché la carriera lo imponeva, poi desiderato ma mai arrivato, un matrimonio andato alla deriva come la barchetta in mezzo al lago; le sue visite a casa si fecero sempre più rade, per finire con lo scomparire come inghiottita da un mondo lontano. C’erano le telefonate con quelle risposte che sembrano partire con una voce registrata: “come stai?” ,“bene”. Il più delle volte quelle parole erano una protezione per non dire che in realtà non stava così bene e non si sa perché non riusciva più a recuperare il terreno perso nei confronti della vita, delle persone, fino a che un giorno si ritrovò davanti allo specchio con il viso struccato a chiedersi dove fosse finita la donna che portava a spasso quel viso.
Un mattino di gennaio, dopo aver smaltito la baraonda delle feste di Natale vissute a San Francisco tra luci, colori, suoni, negozi, cene e solitudine, decise che era ora di tornare a casa, senza avvisare, a rivedere, a rivivere. Sua madre la accolse in pantofole color crema mai sostituite dopo tutti quegli anni; quando aprì la porta non credeva ai suoi occhi, la sua bambina, come la chiamava, era tornata; lei, donna in carriera che tanto aveva da fare da non riuscire nemmeno più a fare un salto a casa per Natale; la intontì di parole, di racconti, soprattutto di domande. Era sabato, il sabato successivo all’Epifania; sua madre la rimproverò perché non era tornata un paio di settimane prima per Natale, senza capirla pur amandola profondamente.
Lei chiese del papà; mamma le spiegò che era partito il giorno prima per quel postaccio in mezzo ai boschi. “Chissà che freddo, con questo gelo e la nebbia, ma lo conosci, sai com’è fatto”, concluse mentre la faceva accomodare in soggiorno. Avanzava lentamente sul pontile che sembrava poggiarsi galleggiando sullo specchio d’acqua; avanzava verso quel vuoto immenso senza contorni, così indefinito da perdersi dentro. Le venne in mente una frase che le aveva detto il papà molti anni prima, camminando in mezzo ai boschi alla ricerca di funghi: “A volte occorre perdersi per ritrovarsi”. Voleva perdersi in quella nebbia, anzi no, voleva ritrovarsi. Non si girò, lo aveva fatto troppe volte, ma ora no; guardò avanti, aprì le braccia ; sembrava un albatro che dopo aver girato il mondo torna esattamente dove aveva nidificato anni prima. Sembrava volesse abbracciare quel luogo ritrovato dopo tanti anni. Respirò a fondo, si sentì meglio, fece un passo… “Sai Ilaria, ho appena avvistato una meravigliosa lepre grigia con due piccoli”. Sentì la voce dietro di sé, come fuoriuscita misteriosamente dalla nebbia. Si girò: “Mi porti a vederle papà, così magari le fotografo”.