Viaggiando nel Mondo, fuori dal Mondo

Racconti e incontri vissuti in 74 Paesi.

“Esploravo tutto quello che potevo senza riferimenti pregressi e senza smartphone, una sensazione bellissima e quasi inspiegabile: ti crei il tuo viaggio, il tuo percorso personale, senza interferenze da chi è stato già in quei posti. L’atto stesso di perdersi è sensazionale.”


L’INTERO RICAVATO DELL’AUTORE SARA’ DEVOLUTO IN BENEFICIENZA

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Dettaglio

Obiettivo Prevendita

50 Copie

Termine Prevendita

15 Aprile 2025

Consegna Prevista

Aprile/Maggio 2025

Info Autore

Simone Schippa

Simone Schippa

Nasce a Terni il 2 giugno 1983. Dopo aver completato gli studi, intraprende il servizio militare nei vigili del fuoco.
La sua vera passione, tuttavia è il viaggio. Spinto dal desiderio di esplorare il mondo inizia a girare l’Europa, per poi varcare i confini del continente a soli 23 anni con un viaggio in Africa che segnerà profondamente la sua vita. Lì vivendo un’esperienza di volontariato in Uganda, una volta rientrato in Italia si rende conto che il posto dove è cresciuto è uguale ma il suo modo di guardarlo è cambiato. Decide quindi di licenziarsi dal salone dove faceva il parrucchiere e con un pettine e una forbice in mano si trasferisce prima a Dublino, poi in California, Nuova Zelanda, Stati Uniti e infine Australia dove trascorrerà più di 4 anni. Durante questo periodo non smette mai di viaggiare, esplorando 74 nazioni in totale e continua a dedicarsi al volontariato, tornando ogni anno in Africa per missioni in Uganda, Rwanda, Tanzania, Senegal, Madagascar e Guinea-Bissau. Mentre vive in Australia riceve una chiamata inaspettata: viene invitato a partecipare al concorso per entrare nei vigili del fuoco. Senza esitazione prende un volo, torna in Italia e supera con successo le prove fisiche e psicoattitudinali. Inizia così un periodo di continua alternanza tra Australia e Italia fino al momento in cui diventerà vigile del fuoco. L'amore per il continente nero o “Lybie” come prima del 4° secolo a.C veniva chiamata è ormai incontenibile e Simone decide di fondare l’associazione SimonAndFriendsXAfrica, ente del terzo settore, volta a svolgere progetti di solidarietà in Africa. La sua passione per il volontariato, il desiderio di fare la differenza e il legame profondo con il continente africano sono oggi le forze che lo guidano nel suo cammino.

Sinossi

Cosa accade quando si decide di viaggiare e staccarsi dalle apparenti comodità di un mondo connesso, immergendosi nelle realtà più autentiche del pianeta con uno zaino in spalla?

Questo libro non è una guida turistica, ma un racconto intimo e profondo di venti percorsi di vita, intrecciati tra viaggi e lunghi soggiorni in terre lontane. Viaggi non solo attraverso orizzonti inesplorati, ma anche nel cuore di culture sconosciute, dove il tempo e lo spazio si intrecciano in esperienze che riscrivono la percezione della vita, della sofferenza e della bellezza umana. Un viaggio senza smartphone, senza filtri, senza la rete che ci tiene costantemente in contatto con il mondo virtuale.

Un percorso alla ricerca del senso della vita dove il cuore e la mente si incontrano e si confrontano con le storie di chi vive lontano dalle nostre realtà quotidiane.  Attraverso le sue tappe l’autore ci invita a vivere il viaggio senza preconcetti, pronto a scoprire il mondo attraverso gesti di amore, momenti di difficoltà, incontri significativi e situazioni che mettono a dura prova il corpo e l’anima. Immerso nel mondo fuori dai percorsi turistici, si fa spazio una riflessione sul valore del contatto umano e sulla bellezza di un mondo che lontano dalle convenzioni sociali, si rivela nella sua verità più pura. Tra momenti gaudi, arresti, malattie mortali, rapimenti, fucili e coltelli puntati contro, questo libro ci spinge a riflettere sul nostro modo di vivere, sulla connessione con gli altri e sul senso profondo dell’esistenza.

Un percorso che ci invita a fermarci e a guardare il globo con occhi nuovi, spogliati delle sovrastrutture che ci nascondono la realtà di un mondo che è cambiato e non possiamo più fare finta di niente. Di questa apparente normalità dovremmo provare imbarazzo e indignazione. Il viaggio inevitabilmente cambia chi lo intraprende, scuotendo l’anima e aprendo gli occhi su ciò che davvero conta.

Anteprima

Samoa
Era cominciata come una delle tante volte nelle quali rientravo in Australia con un solo visto turistico di 90 giorni, ma lo Zio si era offerto di farmi da garante come uno zio vero e proprio. Nel modulo per la richiesta del visto per un anno, avevamo indicato il nostro nuovo legame familiare ed eravamo riusciti così ad ottenerlo. Da quel giorno lui e la compagna divennero zio Enrico e zia Karen. Quella sera, a cena nella loro casa sulla Gold Coast, esternai quel desiderio che mi lavorava dentro e con una luce negli occhi, lo Zio esclamò: “Fammi sognare di nuovo!”.
Quella fu la sera in cui decisi che un giorno avrei visitato tutte quelle isole nel Pacifico con la solita impostazione: zaino in spalla, alloggi di fortuna e una gran voglia di evitare turisti, preferendo amalgamarmi agli autoctoni.
Gli alloggi da squattrinati viaggiatori sono stati una salvezza per me che ho sempre viaggiato più di quello che avrei potuto permettermi. Ancora oggi continuo a preferire ostelli, guesthouse o piccole case gestite da persone del posto agli alberghi di lusso e ai resort. Nel primo caso ci si relaziona spesso con personalità affascinanti, mentre i secondi sono perlopiù popolati da gente ricca o che pretende di esserlo per una settimana, una compagnia non sempre gradevole. Dopo una settimana, i turisti faranno ritorno nelle loro abitazioni e racconteranno di aver visitato quel luogo. Per dimostrarlo mostreranno le foto e i video fatti con le loro “scatolette luminose” che si portano appresso ovunque. Tutte le volte che sto in un albergo di lusso mi sento a disagio. In un bugigattolo a contatto con le persone locali, è per me come essere a casa. Adoro vivere nei villaggi, amo quella gente semplice, buona e ospitale. Li sento vicini, spesso mi hanno fatto del bene. Chissà quante volte sarei morto se non mi avessero salvato, ospitato e protetto. Come quando contrassi la malaria in Uganda, o quando venni attaccato con dei coltelli da tre malviventi a Rio de Janeiro, o durante un incidente mentre facevo surf a Bali, per non parlare delle innumerevoli occasioni in cui mi sono trovato in situazione ardue e inaspettate. A Samoa avrei proseguito con lo stesso approccio.
I primi abitanti delle isole Samoa giunsero dal Sud-est Asiatico, e date le mie esperienze precedenti ero certo che i samoani sarebbero stati ospitali e generosi, pronti ad aprirmi le porte del loro fantastico arcipelago e delle sue due isole principali: Upolu dove si trova la capitale Apia, e Savai’i. Esiste anche un’isola disabitata il cui nome assomiglia a quello della crema di nocciola e gianduia più amata dagli italiani, Nu’utele. Comunque… nel 2011 stavo vivendo in Nuova Zelanda, a Auckland, e l’occasione di visitare le isole Samoa era a portata di mano, perciò senza remore comprai il biglietto. L’aereo sarebbe partito dall’aeroporto di Auckland la domenica mattina, così colsi l’occasione di vivermi la notte in downtown, per celebrare il compleanno di una amica della mia coinquilina. La notte trascorse velocemente fra la concitazione per l’imminente partenza e la curiosità di sapere cosa mi avrebbe riservato quel primo viaggio in Polinesia. Alle quattro di mattina presi un taxi che mi portò all’aeroporto internazionale. Il check-in e i vari controlli furono rapidi, e così finalmente mi imbarcai. Decollammo proprio mentre il sole stava sorgendo.
Dopo appena qualche ora, vidi sotto di me un arcipelago verdeggiante e fitto di isole. Stavamo volando sopra le Fiji. Sarebbe stato idilliaco fermarsi qualche giorno per poi continuare verso Samoa, ma sfortunatamente non ero io a guidare, e dovetti stare ai piani prestabiliti della rotta, continuando però a guardare fuori per godermi la magnificenza delle tantissime isole nel grande tappeto blu sotto di noi. Dopo sole quattro ore di volo atterrammo all’aeroporto di Faleolo, nell’isola principale di Samoa. Quando il portello dell’aereo si aprì, le prime cose a venirmi incontro furono il colore dell’oceano e l’odore dalla vegetazione rigogliosa. Venimmo poi accolti da un gruppo di donne in abiti locali che suonavano l’ukulele, ondeggiando i loro corpi secondo la tradizionale danza Siva e muovendo delicatamente le mani e i piedi a tempo di musica.
Una volta nel terminal attraversai frettolosamente i controlli per uscire di nuovo alla scoperta dell’isola. Presi un taxi e chiesi all’autista di portarmi in un posto carino gestito da persone locali per passare la notte. Le maggior parte delle strade a Samoa costeggiano le spiagge. Era idilliaco vedere l’oceano nel lato sinistro e nell’altro le case variopinte con accanto delle vere e proprie tombe. Qui la vita e la morte si amalgamano. Il concetto della morte è vissuto senza tabù, e lo si evince dal fatto che non esistono cimiteri lugubri e isolati. Le tombe sono poste tra le abitazioni, sono oggetto di decorazione, e invece di ignorarle ci si sofferma spesso ad ammirarle, senza provare malinconia per chi ha lasciato l’ubicazione temporanea della propria anima nel mondo.
Arrivati alla città di Apia, rimasi sbalordito dalla quiete e dal silenzio della città. Chiesi al conducente, Jimmy, se quel silenzio fosse tipico o se dipendeva solamente dal fatto che quel giorno era domenica. Lui rispose semplicemente che era sabato e non domenica. Pensai che Jimmy non parlasse molto bene l’inglese e che stesse confondendo i giorni. Andammo avanti per un po’ a dibattere su che giorno fosse. Per un istante pensai perfino che Jimmy si fosse fumato qualche cosa o che stesse avendo qualche effetto indesiderato per il matalafi . Jimmy non sembrava cagionevole. Ancora una volta con la massima condiscendenza dissi: “Jimmy, ti assicuro che ieri era sabato, ho lavorato in salone tagliando e colorando i capelli tutto il giorno. La sera sono andato a un compleanno e sei ore fa ho preso il volo per venire qui a Samoa. Jimmy, con occhio bieco mi domandò da dove fossi partito. Gli risposi che ero arrivato da Auckland. In quel momento Jimmy, con le sue belle manone piantate sul volante e un sorriso malizioso, si voltò verso il retro della macchina dove ero seduto e disse: “Oggi è sabato. Sei tornato un giorno indietro attraversando il 180° meridiano”.
Jimmy aveva ragione, attraversando “The International Date Line” (IDL) ossia la linea internazionale del cambio di data ero tornato un giorno indietro con sole quattro ore di volo. Avrei dovuto tenere a mente che viaggiando dall’Asia verso l’America dovevo contare la stessa data due volte, mentre in direzione opposta avrei dovuto saltare un giorno. Praticamente sarei arrivato un giorno in ritardo al lavoro la settimana seguente tornado a Auckland. Per poter sincronizzare le ore anche tra stati diversi, nel corso del ’800 il mondo fu suddiviso in 24 fusi orari. Con l’epoca del colonialismo e delle comunicazioni intercontinentali si ebbe la necessità di fissare in modo uniforme le date uguali per tutti. Così, nel corso della Conferenza Internazionale dei Meridiani di Washington del 1884, venne istituita la linea del cambio di data lungo il 180º meridiano, ovvero quello opposto al meridiano di Greenwich. Successivamente mi informai e venni a sapere che, ufficialmente, nessun documento o trattato fissa l’effettivo percorso odierno della linea.
Jimmy mi scaricò in una guesthouse. L’accoglienza fu subito calda e, dopo una brevissima presentazione, lasciai lo zaino in camera e partii alla scoperta delle strade di Apia. Quando si visita una nuova città, l’ideale sarebbe di conoscerne la storia, la cultura, le tradizioni, imparare qualche termine della lingua locale, di assaporare cibi tradizionali. Esploravo tutto quello che potevo senza riferimenti pregressi e senza smartphone, una sensazione bellissima e quasi inspiegabile: ti crei il tuo viaggio, il tuo percorso personale, senza interferenze da chi è stato già in quei posti. L’atto stesso di perdersi è sensazionale. Perfino Tony Wheeler, fondatore della guida Lonely Planet, durante un’intervista disse che i momenti più significativi dei suoi viaggi li ha trovati nei momenti in cui si è perso. Sempre più convinto di questa verità, mi misi alla ricerca del Museo Robert Louis Stevenson di Apia, situato tra splendidi giardini e circondato da piante multicolore. Finalmente avrei visitato la dimora dell’autore di Dr. Jekyll and Mr. Hide. Un luogo molto intrigante, con un primo piano fiabesco, dove le pareti sono completamente originali, così come le scale e la mobilia. Il pianoforte, con a sinistra il piccolo tavolo e sulla destra una vecchissima cassapanca, rendono quell’angolo della casa ammaliante. Anche il piano superiore, con i suoi letti a baldacchino, la libreria e i numerosi manufatti, mi ha fatto sentire avvolto dall’energia di un grande scrittore.
Stevenson era, oltre ad un prolifico scrittore, anche quello che oggi verrebbe definito un attivista. Era diventato il principale portavoce nella lotta per l’indipendenza. Amato dalla popolazione al punto da consentirgli di essere seppellito in cima alla collina, dove tuttora riposa. Anche se faceva molto, caldo quel giorno decisi di farmi una camminata per andare a trovarlo. Ci volle circa un’ora, ma da sopra la collina la vista era mozzafiato. La tomba è molto semplice, un basamento di cemento rettangolare con sopra un altro rettangolo di cemento a forma di tetto a due falde. Il sole era davvero rovente, e io vedevo l’oceano in lontananza senza potermi immergere per rinfrescarmi. Fortunatamente, un samoano mi disse che non molto lontano da lì c’era un luogo dove si poteva fare il bagno nell’acqua corrente in un fiume con degli scivoli naturali, così nella discesa mi aggregai ad un gruppo di ragazzi argentini, i quali mi offrirono gentilmente un passaggio verso Papase’ea Sliding Rocks. Fu un’esperienza divertentissima. Quel fiume era davvero disseminato di scivoli naturali, il più alto dei quali sarà stato all’incirca cinque metri. I ragazzi argentini, che avevano portato diverse birre locali con sé, mi offrirono una vailima. La presi e iniziammo a bere ascoltando lo scroscio dell’acqua che scorreva rapida sulle rocce. Ero appena arrivato, ma Samoa non stava disattendendo le mie aspettative. Il fascino romantico dell’isola si sprigionava dal senso di separazione, dalla sensazione di trovarsi in un luogo svincolato dalla terra ferma, dove perfino ansie, preoccupazioni e titolari di lavoro non potevano infiltrarsi.
Samoa è qualcosa di più. L’isola appare meno convenzionale rispetto a tutte quelle visitate in precedenza, esteticamente risulta come un dipinto astratto ma allo stesso tempo appare intensamente umana. Una donna stava cucinando non molto lontano dalla nostra auto. Vestita con una gonna da colori vivaci, sedeva vicino a una pentola adagiata su un focolare di pietra e in cui bolliva uno stufato di verdure. Accanto a lei un vivace bambino giocava con un cucchiaio di legno, dando sporadiche randellate a una vecchia bottiglia di plastica mentre riproduceva una melodia senza note o spartiti musicali. La musica è intrinseca alla loro cultura e ogni anno Samoa ospita un festival con concerti gospel. Nella “Repubblica”, Platone scrive che la musica è necessaria per la formazione degli eroi, poiché introduce l’uomo all’ordine matematico e all’armonia del cosmo. Samoani, eroi, musicisti, pescatori erranti erano in effetti la cornice della mia permanenza nell’isola. A Upolu si può dormire in spiaggia, ritrovandosi sopra l’oceano quando arriva l’alta marea nelle palafitte tipiche della Polinesia, dieci dollari americani a notte per essere parte di un sogno, anche se godersi l’oceano da una palafitta non ha prezzo. Un sogno tanto più grande se si è circondati da luoghi paradisiaci come la spiaggia di Lalomanu: sabbia dorata, acqua turchese, pesci che scorrazzano tra i piedi e l’isola di Nu’utele sullo sfondo. La musica dell’oceano mi accompagnò tutta la notte, mentre la brezza marina spostava le piccole canne di bambù del tetto e delle pareti. Dormii con un materasso poggiato in terra, ma la sensazione era quella di essere in paradiso. Forse Samoa è davvero il paradiso.
Accanto alle palafitte c’era un campo da beach volley e così, con altri ragazzi francesi, argentini e perfino una ragazza napoletana, i miei nuovi compagni, iniziammo una partita indimenticabile, circondati dal sole, dall’oceano e dai profumi dei piatti di Marie. Un ragazzo che lavorava lì ci portò delle birre, avvisandoci che la cena era quasi pronta. Da lì a poco Marie ci chiamò e noi ci sedemmo a tavola ancora in costume. La sabbia ricopriva parte del nostro corpo, il sudore risplendeva sui nostri visi. Il sole in lontananza ci dava l’ultima carezza prima di andare a svegliare il vecchio continente. Poliglotti a nostro modo, comunicavamo fra commensali come se fossimo stati una famiglia unita e desiderosa di raccontarsi le varie avventure della giornata. Un profumo di rosa aleggiava sopra alla tavolata, e infine Marie si sedette con noi con la sua presenza imponente. Ci disse che i samoani sono tra i popoli più obesi della terra. Pur vivendo in un arcipelago sperduto nell’oceano Pacifico dove non si mangiano cibi malsani, come panini e patatine fritte, tendono comunque a ingrassare vistosamente. Ci disse che per via di questa loro peculiarità erano diventati una sorta di laboratorio vivente per lo studio delle malattie metaboliche, dall’obesità al diabete, e fonte inesauribile di conoscenza al riguardo. Dopo anni di studi, sembra che gli scienziati abbiano trovato nel loro metabolismo un gene vocato ad un efficacissimo immagazzinamento delle calorie, sotto forma di grasso.
Questo però non significa che gli abitanti delle isole Samoa, in quanto portatori di queste gene, siano inesorabilmente condannati all’obesità. Di certo ne aumenta il rischio, ma a determinare il loro elevato indice di massa corporea sono le loro errate abitudini di vita, fatte di troppo cibo e di tanta sedentarietà.
“Una dieta salutare e tanta attività fisica mi aiuterebbe moltissimo a perdere peso”, ci disse Marie. Quindi ci sorrise e ci incoraggiò a portare le birre in alto per un brindisi.
“Backpackers, you’re awesome”.
Prima di spostarmi nell’isola seguente, c’era ancora un’attrazione che non potevo assolutamente perdermi: una piscina naturale nata da un cedimento del terreno a seguito delle numerose eruzioni vulcaniche che avevano avuto luogo in un lontano passato. Partii con l’auto con due ragazzi argentini e insieme ci recammo nel villaggio di Lotofaga, sulla costa meridionale dell’isola di Upolu.
Arrivati al villaggio lasciammo la macchina e ci incamminammo sul sentiero in direzione dell’oceano. Dopo dieci minuti di camminata trovammo ad accoglierci uno specchio d’acqua cristallina su un letto di sabbia e pesci tropicali di molteplici varietà. La vegetazione lussureggiante era di un verde intenso che sembrava quasi artificiale. L’acqua si muoveva avanti e indietro costantemente per via dell’influsso di un canale che si addentrava nella grotta, collegando la piscina direttamente all’Oceano Pacifico. Una ripida scala di legno portava verso la superficie dell’acqua. Chiesi a un uomo che ci stava nuotando dentro quanto fosse profonda, mi rassicurò che non lo era poi molto. Senza indugiare oltre, presi la rincorsa e mi tuffai. Saranno stati sette o otto metri, ma quella caduta sembrò durare per un tempo infinito. Il contatto con l’Oceano Pacifico fu un risveglio sensoriale. Mi lasciai trasportare dalla corrente mentre i raggi del sole rendevano multicolori i pesci curiosi intorno a me. To Sua Ocean Trench era la piscina naturale più bella che avessi visto fino a quel giorno, restai a contemplare la magnificenza di quel luogo per ore senza preoccuparmi di nient’altro.
Giunse il momento di andare sull’isola Apolima, la più piccola delle quattro isole abitate di Samoa, plasmata dal cratere di un antico vulcano. Conta appena settantacinque abitanti e non è presa di mira da turisti, essendo priva di strutture ricettive. Arrivai sull’isola da un vecchissimo molo fatto prettamente di tavole di legno, a bordo di una piccola imbarcazione guidata da un signore molto anziano. Vedevo che era curioso di parlarmi, ma le barriere linguiste ci impedirono di capirci. Una volta attraccati, saltai sul molo e mi diressi verso il centro dell’isola, dove incontrai casualmente un uomo di nome Livingstone. Sì, Livingstone proprio come il medico, missionario ed esploratore scozzese dal quale prese nome l’omonima città dello Zambia di cui era stato il primo europeo. Il Livingstone samoano, con il suo sgrammaticato inglese, si fece capire e si offrì di farmi da guida.
L’isola si presentò silenziosa e meticolosamente ben tenuta. Grandi prati fioriti e case variopinte facevano da cornice a quell’angolo di paradiso. Procedemmo verso una scuola dove alcuni alunni stavano ballando e cantando vestiti con la stessa divisa scolastica rossa. Livingstone orgoglioso mi presentò uno dei suoi cinque figli. L’insegnate mi salutò calorosamente e, dopo una brevissima conversazione, richiamò la classe all’attenzione. Tutti gli alunni si disposero in cerchio intorno a me e iniziarono a cantare. Non capivo cosa stessero dicendo, ma fu emozionante: quei sorrisi amalgamati all’energia del posto resero quell’istante memorabile. Livingstone mi sussurrò all’orecchio che era un canto per darmi il benvenuto. Non c’erano sguardi leziosi attorno a me, pur essendo io quello che si può chiamare uno straniero.
Quando si viaggia la compagnia principale è la riflessione. Viaggiare può metterti nella condizione di conoscere attraverso quello che vedi, ma anche quello che ti viene raccontato, e ciò produce sempre ulteriori domande a cui cercare risposte. Avevo visto in varie parti dell’isola delle curiose piattaforme di cemento a forma di stella, così chiesi al mio nuovo amico cosa fossero. Mi disse che il loro nome specifico era “tumoli a stella” e si presuppone che fossero usate per prendere al laccio i piccioni selvatici, un tempo uno dei passatempi preferiti dai capi tribù. Mi disse anche che la più grande e più antica di quelle strutture in tutto il Pacifico sorge proprio a Savai’i e si chiama “Tumulo di Pulemelei”.
Livingstone era un uomo tuttofare. Pescatore, guida turistica e di lì a poco sarebbe diventato anche albergatore. E come in una sorta di preveggenza, mi propose di soggiornare da lui con la sua famiglia. Senza nemmeno domandargli il prezzo accolsi subito l’invito. Ci incamminammo e dopo qualche minuto, percorrendo una piccola stradina, arrivammo alla sua casa. La prima cosa che notai fu che aveva una grandissima veranda. La moglie di Livingstone era intenta a cucinare, mentre i figli scorrazzavano per la casa. Il più piccolo, che aveva nove mesi ed era nudo come mamma l’ha fatto, si cimentava in una goffa manovra per muoversi dal pavimento dove giaceva. Quando la cena fu pronta ci sedemmo a tavola e io vidi arrivare un profumatissimo “Faiai Eleni”, uno dei piatti tipici di Samoa preparato con pesce alla crema di cocco, comunemente cucinato direttamente nel guscio della noce. Fortunatamente ancora non ero diventato vegetariano. Mangiammo senza posate. I bambini si sporcavano quasi ad ogni boccone, ma i genitori sembravano non preoccuparsi. Provo sempre un senso di libertà quando affronto un pasto in cui è necessario usare le mani. Forse dipende dal fatto che, quando tocchiamo il cibo, il cervello libera alcuni enzimi e trasmette numerose informazioni all’organismo per preparare la digestione. Ci sono molti paesi dove mangiare con le mani è questione di educazione, come ebbi occasione di imparare in Messico, dove mangiare tacos e nachos con la forchetta è considerato un sacrilegio.
Finita la cena mi venne mostrata la mia camera. Presi atto che la casa era organizzata su più livelli non concentrici, addirittura distanziati gli uni dagli altri. Uscimmo dal retro della veranda e prendemmo un sentiero in salita, appena dieci metri più avanti, sulla destra, Livingstone mi indicò una piccola capanna, dicendomi che quello era la sua dimora notturna e quel giorno mi era stato riservato l’onore di dormirci. Il panorama era strabiliante. Si vedeva l’oceano abbracciare la sabbia dorata della spiaggia sottostante, acqua cristallina e palme con la giusta inclinazione a fare da cornice. Avrei dormito sotto le stelle. Nel basamento di cemento erano piantati dei bastoni sui quali poggiava un tetto con diverse tipologie di foglie, tutto intorno una staccionata in legno. Il materasso appoggiato per terra era circondato da un’ampia zanzariera fissata nel punto più alto del tetto della pseudo capanna. Le lenzuola celesti piegate e ben messe coprivano il materasso, al cui centro stava una rosa pronta ad accogliermi. Poco distante una cabina cilindrica fatta di ramaglie e paglia ricopriva il bagno, composto soltanto dallo stretto necessario: una buca a terra e un bidone di plastica pieno di acqua per lavarsi. E il cielo della Polinesia a fare da tetto. Pensai a quanto fosse bella la vita scandita dai ritmi della natura. Ancora continuano a chiedermi perché a casa non ho lo scatolone luminoso e quando sono in Italia vivo in un paesino di 397 abitanti dove ci sono donne che fanno la pasta di casa e godono degli abbracci dei mariti piuttosto che dei like sui social. E dove ci sono uomini che coltivano la terra e guardano le proprie mogli piuttosto che spiare quelle degli altri.
Il sole era pronto a svegliare il vecchio continente scendendo a capofitto sull’oceano. Mi feci una doccia attingendo dal piccolo secchio. La temperatura dell’acqua era stata decisa soltanto dal tempo in cui il sole era transitato sopra quel minuscolo punto del sistema solare. Mi coricai, dando un’ultima occhiata allo splendore che mi circondava. Abbracciai la rosa e mi lasciai coccolare dal suo profumo e dalle folate di vento caldo. Durante la notte un tremendo temporale si abbatté sull’isola. Livingston corse in fretta verso di me e abilmente fece srotolare delle pareti di plastica dal tetto ancorandole a terra. La pioggia incessante batteva continua sulla capanna. Thor, la personificazione del fulmine nel pantheon germanico, scendeva quella notte a Samoa illuminandola a giorno, concedendo a Indra, divinità del tuono nella mitologia induista, di aggiungere un boato di tanto in tanto. Quello era l’unico scatolone luminoso che avrei voluto in camera mia. Peccato che le cose più belle come tramonti, albe e temporali non si possono comprare al supermercato. Allora anche con poco si può essere felici?
La tempesta fu infine sostituita dalla quiete. Per gli egizi il sole era simbolo di luce, calore e prosperità rappresentato dal dio Ra. Per me il sole fu il simbolo di una nuova giornata piena di nuove promesse, una sveglia naturale, la sua luce palesava le bellezze dinanzi a me. Facemmo colazione tutti insieme. I bambini scalmanati sembravano non volersi sedere al tavolo, ma Livingstone, dopo avere fatto una piccola corsa per acciuffarli, li fece accomodare ognuno al suo posto come fossero semplici bambolotti. Trafelato si sedette accanto a me e iniziò a raccontarmi tante cose della cultura polinesiana, istruendomi su una serie di conoscenze perdute da noi occidentali. Mi raccontò di quando, prima dell’avvento della medicina sull’isola, suo nonno Pa curava la sua famiglia e altre persone del villaggio utilizzando l’approccio omeopatico del “medicine man” con le proprietà e i segreti delle erbe autoctone. Lo faceva usando l’arbusto misterioso offerto dalla loro terra: il Kava Kava, conosciuto anche come pepe intossicante. Suo nonno aveva accertato che il consumo di questo arbusto, utilizzato sotto forma di polvere disciolta in acqua, aveva un effetto benefico per emicranie, convulsioni, insonnie e dava un effetto calmante. Feci una ricerca qualche giorno dopo, e scoprii che nel mondo occidentale questa miracolosa erba viene utilizzata nella medicina omeopatica e in campo erboristico. Qualche anno dopo alle Fiji avrei scoperto che la Kava Kava veniva usata anche come bevanda per avere un contatto con una realtà superiore, come stimolante per sogni e visioni. Una sorta di continuazione in versione ludica di antichi rituali religiosi. Come sempre il viaggio mi riservava lezioni di vita e maestri inaspettati pronti a dispensare le loro conoscenze non accademiche ma esperienziali.
Dopo aver trascorso qualche giorno con loro, partii infine per Savai’i. Livingstone si offrì di accompagnarmi al molo da dove sarebbe partita la barca per l’isola. Giunto il momento di salpare, mi diede la mano e si congedò con un sorriso che tuttora tengo conservato nello zaino dei ricordi.
Subito dopo aver lasciato l’isola di Apolima, alla mia vista si mostrò dirompente la verdeggiante foresta pluviale di Tafua. L’uomo al timone mi spiegò che alcune piante hanno sviluppato alcuni meccanismi come l’espulsione di acqua in forma liquida attraverso le foglie, processi che danno una sensazione di forte umidità all’interno della foresta. Nonostante questo mi consigliò di andarci a fare una camminata e di arrivare fino al cratere vulcanico di Tafua. Arrivato a Savai’i, mi venne incontro un ragazzo con la moto, domandandomi se mi servisse un passaggio. In questi luoghi isolati del mondo ragazzi indigenti si offrono spesso come servizio taxi per sbarcare il lunario. Mi era stato consigliato di andare al nord dell’isola, vicino Saleia dove avrei potuto nuotare con le tartarughe e ancora una volta avrei pernottato in una palafitta tipicamente polinesiana a un prezzo accessibile per un backpacker. Saltai sulla moto del ragazzo e con un colpo di gas lasciammo il piccolo molo. Chiesi se potesse portarmi prima a vedere le cascate di Afu Aau, al che lui fece abilmente inversione di marcia per dirigerci nell’entroterra. Incontrammo bellissimi cavalli liberi al pascolo tra palme altissime, si percepiva che quel luogo era ancora fortemente caratterizzato dalla presenza delle tribù autoctone, che con le loro tradizioni ed i loro riti tribali ne rendono particolarissima l’atmosfera. Le cascate mi invogliarono a saltarci dentro, riportandomi alla mente il Giappone, dove i monaci delle montagne avevano l’abitudine di mettersi sotto le cascate per almeno dieci minuti per implementare il processo di purificazione e rinforzare l’autodisciplina. Un’antica pratica di abluzione chiamata “misogi”, che i fedeli effettuano lavando completamente il proprio corpo al fine di purificarsi da peccati, malasorte e contaminazioni. Anche i grandi sportivi si immergono nelle piscine di ghiaccio, io l’avrei fatto nelle cascate di Afu Aau. L’acqua gelida avrebbe scosso il mio sistema nervoso autonomo deputato alla pressione del sangue, battito cardiaco, respirazione, dilatazione e contrazione dei 125.000 chilometri di vasi sanguini in corpo, vale a dire tre volte il giro del mondo. Non essendo un monaco, dopo qualche minuto uscii dall’acqua, soddisfatto e rinvigorito, e in breve tempo ripartimmo.
Passai qualche giorno nel nord dell’isola dove riuscii a nuotare anche con le tartarughe marine, le quali, appresi, non devono assolutamente essere toccate perché per paura potrebbero andare in profondità al punto di finire la riserva d’aria non riuscendo più a risalire in tempo.
Mentre ero in spiaggia mi venne detto che all’aeroporto di Samoa alcuni voli erano stati sospesi. Sarei arrivato già un giorno in ritardo al lavoro dovendo atterrare in Nuova Zelanda. Cosa altro poteva succedere? Mi domandai. Scoprii che la causa di tutto era l’eruzione del complesso vulcanico Puyehue-Cordón Caulle in Cile. Dopo 51 anni di inattività, quella stava avvenendo una delle più grandi eruzioni vulcaniche del ventunesimo secolo. Almeno 3.500 persone furono evacuate dalle aree vicine, mentre la nube di cenere fu soffiata su tutte le città dell’emisfero australe, tra cui Buenos Aires, Sydney, Auckland e Port Moresby, causando considerevoli disagi e costringendo le compagnie aeree a cancellare centinaia di voli nazionali e internazionali. Decisi di lasciar andare ogni aspettativa e aprirmi al possibile. Il presente assoluto, il concetto della meditazione che offre l’opportunità di vivere nel qui ed ora senza i filtri del passato e del futuro. Anche se l’approccio olistico non era radicato nella mia cultura, quel giorno lo scelsi. Scelsi il presente olistico di Samoa con la prospettiva temporale che faceva bene alla mia salute. La Nuova Zelanda, il lavoro e la mia titolare avrebbero aspettato. Perché mi sarei dovuto preoccupare del domani senza assaporarmi con pienezza quella giornata nella sua unicità?

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